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Idee per Napoli......l'urbanistica del futuro

11/10/2010

RELAZIONE INTRODUTTIVA DI TINO SANTANGELO

Il PIANO REGOLATORE DI NAPOLI *  

 

         Se invece di essere nella sede della Fondazione fossimo altrove, con ospiti non napoletani, avrei introdotto questa conversazione dicendo “benvenuti nella città senza regole, benvenuti nella città del sacco edilizio, benvenuti nel luogo dove più evidente è stato il fenomeno delle mani sulla città”. E non avrei mentito se avessi voluto fare riferimento storico allo stato della nostra Città fino alla metà degli anni ‘90.

         Oggi fortunatamente questo non è più vero. Oggi, al contrario, c’è chi afferma che la Città è caduta in un eccesso  di regole che ne bloccherebbe un rapido sviluppo urbanistico. E questa sera di sviluppo urbanistico intendo dialogare con Voi, riferendomi in particolare ai meccanismi e agli effetti dell’applicazione del nuovo piano regolatore entrato in vigore nel 2004.

         Prima però di parlare di questo ancora relativamente giovane piano è forse il caso di ricordare la situazione della Città nel momento in cui ad esso si mise mano. Eravamo nell’ormai lontano 1994 e Napoli si presentava in uno stato di totale depauperamento produttivo. Si trattava di un processo partito all’incirca negli anni ’80 e la Città, come buona parte del Mezzogiorno, aveva perso in pochi anni molto del proprio apparato industriale, storicamente collegato  all’economia di Stato. Il fenomeno aveva preso avvio con la decisione di eliminare l’IRI e le Partecipazioni Statali; e mentre per queste ultime la decisione poteva essere giusta in funzione di quello che il relativo ministero rappresentava in termini di malcostume politico, per l’Iri la decisione fu a mio avviso dissennata per la funzione che l’Istituto per la Ricostruzione Industriale aveva svolto e svolgeva nel Mezzogiorno. Per distruggere l’apparato industriale pubblico ci volle tutta la forza di pressione della grande industria privata del nord; il resto lo fece la nuova Europa con il divieto degli aiuti di stato. Il motivo conduttore che fu utilizzato in modo ossessivo fino ad ottenere la chiusura delle fabbriche fu questo: non è possibile che le industrie pubbliche producono perdite che a fine d’anno lo Stato ripiana, mentre le industrie private se non ripianano con proprie risorse vanno in malora. Ma nessuno volle ricordare che con quel sistema, a cui non tutte le industrie pubbliche facevano ricorso (ve n’erano alcune floridissime che costituivano fiori all’occhiello del mondo industriale italiano), si permetteva a centinaia di migliaia di operai di avere un decoroso posto di lavoro e di mantenere le proprie famiglie. E così in brevissimo tempo in tutto il Mezzogiorno si chiusero centinaia di fabbriche e si distrussero innumerevoli posti di lavoro, dando così l’avvio a quel processo di desertificazione industriale  di cui abbiamo parlato nell’incontro di qualche giorno fa qui in Fondazione e che ha lasciato dei veri e propri buchi neri nelle nostre periferie orientale e occidentale e dato anche l’avvio a quella crisi economica del Sud su cui si è poi innestata, con effetti per noi assolutamente nefasti, l’attuale crisi dell’economia dell’intero mondo occidentale; crisi che alimenta e fa prosperare in tutte le regioni meridionali una malavita organizzata sempre più aggressiva e da noi, in particolare, anche una dilagante delinquenza comune. E se non si mette mano a nuove forme di reindustrializzazione, se non si incrementa la media e la piccola impresa, non ci si illuda, il problema non si risolverà mai, anche se divenissimo il più turistico paese del mondo.

         Tornando però al tema della nostra conversazione è necessario ricordare quello che accadde all’indomani della guerra ad opera delle amministrazioni laurine, e cioè una cementificazione selvaggia delle colline, alcuni terrificanti interventi nei pochi spazi ancora liberi del centro storico (valga come esempio emblematico la mostruosità del palazzo Ottieri a Piazza Mercato, o ancora la muraglia cinese di Via Kagoscima, oppure il palazzo dei Veterani a Via Vetriera), la disordinata nascita delle periferie industriali e postindustriali, prive di ogni sia pur minima programmazione, o le periferie nate nelle ex zone agricole, a cui va aggiunta la indisciplinata crescita delle periferie storiche, rappresentate dagli antichi comuni e casali a corona, aggregati senza adeguati collegamenti e senza idonee infrastrutturazioni, di cui si è addirittura perduta l’identità, sommersa dalla nuova edilizia dettata dalle irrisolte necessità abitative; e senza dimenticare il gravissimo quadro di allarme sociale determinato dall’abusivismo così detto di necessità o peggio dall’abusivismo da speculazione camorristica; solo in questo contesto è possibile comprendere in quale quadro dovettero muoversi gli estensori che nel 1994, per incarico di Antonio Bassolino, misero mano alla redazione del nuovo P R G.

         Far emergere luci ed ombre del piano regolatore nato da quella esperienza ed oggi vigente, e in sostanza l’oggetto di questa conversazione; prima però è forse il caso di capire di che cosa parliamo.

         Per dirla molto semplicemente, un piano regolatore altro non è che un sistema di regole destinate a programmare disciplinatamente lo sviluppo di una città. Quindi un corpus normativo, una sorta di “codice”, l’unione cioè di principi fissi, non derogabili, né modificabili se non da chi è detentore del potere di crearle. La garanzia dovrebbe essere perciò data proprio dal fatto che le regole dell’urbanistica non dovrebbero poter essere modificate da chi è chiamato ad applicarle, ma solo da chi dalla legge è chiamato alla loro creazione. Mi pare opportuno fare qui un ardito accostamento fra il mondo del diritto e quello dell’urbanistica; lo faccio solo perché credo possa essere utile per comprendere meglio le problematiche del nostro piano regolatore. Le nazioni del nostro pianeta sono governate da due sistemi giuridici molto diversi fra loro, il sistema latino-germanico c. d. del <<civil law>> e il sistema anglosassone c. d. del <<common law>>. Al primo appartiene il meccanismo delle codificazioni e cioè delle regole precise e dettagliate che tentano di prevedere e regolare tutto e dalle quali non è possibile allontanarsi senza sconfinare nell’antigiuridicità; il secondo si basa invece, sul principio di pochissime regole basilari su si innesta la risoluzione del caso concreto che viene quindi affidata alla volontà delle parti o a quella dei giudici se si sconfina nella patologia dei rapporti interpersonali. E’ facile comprendere quindi che siamo di fronte a due forme di civiltà giuridica di equivalente dignità, tradizione e capacità di regolare correttamente la vita delle nazioni. Orbene questa dicotomia si può affermare che è riscontrabile anche nell’urbanistica, solo che nell’urbanistica la scelta dell’uno o dell’altro meccanismo, che conviene tradurre per comodità di semplificazione in sistema rigido e sistema flessibile o variabile, diviene estremamente difficile perché per l’assetto di una città, strettamente legata all’evolversi dei bisogni dei cittadini, la fissità assoluta attraverso la creazione di regole così generali da avere vita eterna o quasi, appare assai difficile.    

         Datiamo, solo per comodità di esposizione e quindi in modo del tutto arbitrario, la nascita dell’urbanistica, come disciplina dell’architettura meritevole di autonomia scientifica, agli inizi dell’800 e precisamente quando si avverte la necessità di disciplinare gli effetti della prima rivoluzione industriale ed il conseguente inurbamento delle popolazioni contadine che avevano necessità di avvicinarsi alle fabbriche, che costituivano allora le nuove frontiere di un’umanità povera e desiderosa di rapidi miglioramenti delle loro condizioni di vita. Nonostante  quindi la vetustà dell’urbanistica come scienza, in Italia la prima legge organica prende vita negli anni ’40 del ‘900 allorchè viene emanata la prima legge organica. E a quel lasso di tempo vanno ascritti i c.d. piani di “prima generazione”. Con questa locuzione si intendeva far riferimento ai quei PRG che affrontavano il tema della ricostruzione postbellica fatta, sì di ricostruzione, ma anche e principalmente di nuova espansione urbana e metropolitana conseguente alla nuova industrializzazione e ai nuovi flussi di migrazione interna. Era l’epoca delle valige di cartone legate con lo spago e dei treni dal sud.  Si parlò allora di “città aggiunta” per far intendere che doveva rispondere principalmente alle necessità dei nuovi fruitori. Questi piani regolatori di prima generazione non ebbero però fortuna perché la crescita urbana e i conseguenti bisogni, fu considerata più sul piano della speculazione teorica-scientifica che con riferimento alle reali richieste del territorio e della popolazione. In altre parole il concetto di zonizzazione (quello che i tecnici chiamano “zoning”), quello di densità edilizia, gli standard urbanistici (cioè le quantità di spazio da destinare alle attrezzature necessarie alla vita associata, spazio inteso come superficie di terreno oppure come volumi edificati ed espresso in metri quadri per abitante, codificati poi nel ’68 con il D.M. 1444) furono utilizzati come strumenti tecnici distanti dalle reali necessità che dovevano essere soddisfatte attraverso la trasformazione delle città. La prima fase si chiuse quindi con la constatazione che esistevano anche problemi diversi dalla pura dilatazione della città, come: i processi di delocalizzazione industriale, la riconversione degli stabilimenti siti all’interno delle aree urbane, la ristrutturazione delle periferie, la formazione del nuovo terziario, ecc.-.

         Nacquero così negli anni ‘70 i piani regolatori di “seconda generazione” che, guardando proprio alle carenze denunziate con riferimento alla prima generazione, si posero come obiettivo la dotazione della città e del territorio di adeguate attrezzature e servizi sociali tendenti a realizzare non più il solo ampliamento della città, quanto la sua trasformazione. In altre parole si tese a creare la “città giusta” rispetto alle esigenze dei fruitori. Quindi l’oggetto del piano non fu più il puro ampliamento della città ma la sua modificazione strutturale. Da questo nuovo orientamento scaturì la necessità degli “strumenti di attuazione”  come concreti meccanismi per trasformare ciò che già esisteva e cioè la “città consolidata”.

         Negli anni ’90 si cominciò a parlare di piani regolatori di “terza generazione” che si caratterizzano in modo netto per un solo elemento, rappresentato dalla rilevanza che venne data alle connotazioni delle città, nel senso di porne in evidenza i caratteri fisici e la qualità delle risorse ambientali. In altre parole si ebbe la congiunzione di due principi, uno “regolativo”, per la tutela delle parti consolidate, ed uno “revisionale”, per la progettazione delle trasformazioni. Quindi, così come per i piani delle precedenti generazioni le caratterizzazioni erano state “la città aggiunta” e “la città giusta”, per quelli di terza generazione la caratterizzazione è rappresentata dall’analisi e dalla trasformazione della qualità e ciò in quanto il problema prevalente appare essere quello della riqualificazione delle città e non la loro espansione. Va però tenuto in evidenza che in questo periodo, in mancanza di una legislazione urbanistica di respiro nazionale, la revisione delle forme dei PR iniziò a seguire le indicazioni dettate dalle legislazioni regionali. In questo stesso periodo cominciò pure a farsi sentire la costruttiva presenza dell’ UE con forme di azione sostenute con cospicue risorse che consentirono di porre in campo programmi di recupero urbano, programmi complessi come Urban,  contratti di quartiere ed infine i patti territoriali. Per capirci, i piani di terza generazione tennero in conto il completamento urbano, la manutenzione, l’adeguamento delle opere di urbanizzazione, il recupero del patrimonio edilizio a mezzo della manutenzione, del risanamento conservativo e delle ristrutturazioni, quindi riqualificazione del tessuto urbano, ed infine la possibilità di nuova edificazione a completamento ed integrazione dei complessi urbanistici esistenti.

         E siamo così approdati ai giorni nostri nei quali si parla di piani regolatori di “quarta generazione” che sarebbero caratterizzati dalla tendenza a legare insieme la trasformazione fisica della città con le trasformazioni economico-sociali, nel senso che non è ipotizzabile la prima se non si tiene conto delle seconde; il tutto alla luce di una nuova attenzione alle politiche ambientali. La finalità di legare insieme  trasformazione fisica e trasformazione economico-sociale trova il suo naturale contenitore nel “Piano Strategico”, strumento di cui le città cominciano a dotarsi nell'arco dell'ultimo decennio. Quindi “la quarta generazione” di piani  abbandona l'ipotesi di uno strumento urbanistico in senso stretto, per imboccare la strada di una lettura dell’intera problematica della città, fatta di urbanistica e di sviluppo economico-sociale. Questo tipo di piano si sviluppa principalmente nel mondo anglosassone e si base su poche regole nel cui ambito vengono poi inserite le scelte concrete. In altre parole trova applicazione nell’urbanistica quel meccanismo posto a base del sistema giuridico del “common law”, a cui abbiamo fatto cenno in precedenza, sistema tipico di quella cultura normativa che pone a base dell’agire, qualunque sia il  settore di riferimento, la “dichiarazione responsabile”; è di tutta evidenza quindi la difficoltà da noi dell’applicabilità di questo tipo di meccanismo che ha trovato perciò scarsa penetrazione, abituati come siamo a regole codificate e quindi poco adusi ad utilizzare con assoluto rispetto le libertà che le norme, specie quelle urbanistiche, potrebbero concedere. QQQ             Q

         Volendo individuare concretamente alcuni dei contenuti che possono sintetizzarsi in una visione socio-economica dell'urbanistica bisogna parlare di sviluppo sostenibile e quindi evidenziare quattro punti particolarmente significativi:

1= la gestione urbana sostenibile; ricomprendere cioè in unico piano o sistema di gestione le politiche urbane di diversa natura e cioè quelle per gli edifici, per i trasporti, per l’energia, per i rifiuti, ecc.-;

2= il trasporto urbano sostenibile; cioè tutta la più moderna problematica trasportistica (metropolitane, ferro, gomma, auto private, aree di parcheggio e circolazione);

3= l’edilizia sostenibile fatta di migliore progettazione degli edifici in funzione dei moderni materiali, delle tecniche antisismiche, dell’efficienza e dei risparmi energetici;

4= la progettazione urbana sostenibile che comprende modelli di utilizzazione del territorio che tengano conto degli aspetti ambientali, come: l’espansione delle periferie verso le aree agricole, nel senso di una maggiore tutela di tali aree, il degrado delle aree dismesse, la localizzazione delle infrastrutture, la conservazione e il potenziamento del verde urbano.

         Come dicevo, nel 1994 si mette mano quindi ad una variante del PRG in vigore dal 1972, che non aveva avuto però concreta attuazione per la mancanza dei piani particolareggiati. Per una serie di considerazioni più di rilievo politico che tecnico, si preferì parlare di “variante” pur se nei fatti si è trattato di un nuovo piano regolatore generale  reso attraverso quattro documenti separati: gli indirizzi per la qualificazione urbanistica, le norme di salvaguardia (entrate in vigore nel luglio 1998), la variante occidentale ( pure entrata in vigore nel 1998) e la variante generale (entrata in vigore nel 2004). Con questo nuovo PRG, che per i suoi contenuti ritengo possa considerarsi a cavallo fra i piani di terza e di quarta generazione, Napoli si dota di un sistema di regole e di previsioni di cambiamento per programmare ed attuare un rinnovato sviluppo della Città. Il nuovo PRG parte da quattro presupposti incontestabili:

*** il primo rappresentato dal fatto che dopo lo scempio degli anni ’50 e ’60, aree che potessero consentire una reale espansione della Città non ne esistevano più; quindi esclusione dell’ipotesi di espansione del territorio del comunale;

*** il secondo rappresentato dalla constatazione di dover evitare qualunque riduzione della già poverissima dotazione di aree verdi; salvaguardia assoluta quindi delle residue zone verdi;

*** il terzo rappresentato dalla necessità di salvaguardare il centro storico come patrimonio inalienabile, peraltro successivamente dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità e considerato dagli storici dell’architettura come un ineguagliabile museo a cielo aperto; in conseguenza salvaguardia totale del suo tessuto;

*** il quarto ed ultimo costituito dalla assoluta necessità di regolamentare la trasformazione e il recupero delle aree dismesse e delle aree di recente formazione.

         Sono questi i presupposti del nuovo PRG che per le caratteristiche che esprimono hanno consentito di qualificare il piano come “Piano di Riqualificazione”, volendosi con questa denominazione individuare, nella qualità degli interventi, l’elemento fondamentale per lo sviluppo della Città. Quindi riqualificazione nella conservazione e nella trasformazione (con esclusione di ogni espansione del territorio cittadino) come principi ordinatori del nuovo strumento urbanistico.

         Qui è però necessario sottolineare un passaggio fondamentale per far comprendere come si attua il Piano; ora, mentre per la conservazione l’attuazione avviene attraverso interventi diretti che sono già indicati e sviluppati dal piano, per la trasformazione è invece necessaria l’approvazione di strumenti attuativi, i  c.d. PUA.                       

         Cerchiamo ora  di capire quali sono gli interventi concreti indicati nel Piano che ne qualificano concretamente il contenuto:

***** la grande attrezzatura a verde a carattere metropolitano rappresentata dal Parco delle Colline di Napoli a nord e dal Parco del Sebeto ad ovest;

***** la salvaguardia della parte storica della Città attraverso la redazione del piano del centro storico (che per la prima volta in una grande città si redige nell’ambito del PRG e non come strumento autonomo) specie tenendo conto che Napoli ha uno dei centri storici più grandi del mondo, caratterizzato da tanti insediamenti sociali diversi che hanno creato un ambiente urbano multiforme non facile da governare;

***** un nuovo insediamento per la produzione di beni e servizi nella parte orientale della Città, caratterizzata dal recupero di quegli estesi ambiti resi disponibili dalle dismissioni industriali di cui abbiamo parlato e di cui sono esempio, tra gli altri, l’area delle ex Raffinerie, l’ex Feltrinelli, l’ex ICMI, l’ex Rosanova, gli ex Magazzini approvvigionamento delle Ferrovie dello Stato, ecc.;

***** la riqualificazione dell’area occidentale (che forma oggetto, come ho già chiarito prima, di un’apposita variante) rappresentata dal recupero dell’ex Italsider la cui area è destinata a finalità residenziali, turistico-alberghiere e produttive;

***** la riqualificazione delle periferie in un disegno diretto a creare una “Napoli policentrica” che, da un lato dia luogo a nuovi e moderni quartieri e, dall’altro, riduca il peso sul centro della Città, facendo convivere nei nuovi quartieri, accanto alle residenze, attrezzature e spazi pubblici.

         Il nostro PRG funziona perciò come uno strumenti di riqualificazione generale che, come ho già disordinatamente accennato, si articola attraverso le due indicate modalità di gestione puntualmente disciplinate dalla normativa di attuazione: interventi diretti per tutto quanto concerne ipotesi di conservazione sostanzialmente riferiti al patrimonio storico e quindi in questo caso l’asse di osservazione e quello operativo si spostano in linea di massima dall’urbanistica all’edilizia, fermo rimanendo però che le norme di attuazione indicano specificamente gli interventi diretti. Tutti gli interventi di trasformazione invece sono interventi indiretti da realizzarsi attraverso l’approvazione dei piani attuativi e riguardano soprattutto le aree industriali dismesse.

         Forse però la caratteristica che più di ogn’altra costituisce la reale novità del nostro piano è rappresentata dalla  previsione di una costante sinergia pubblico-privata, che consente una realizzazione delle previsioni con l’ausilio delle forze imprenditoriali private, laddove queste previsioni difficilmente sarebbero raggiungibili solo con risorse pubbliche, ossia con la sola forza del Comune di Napoli. Con questo meccanismo il mondo dell’impresa privata diviene, quindi, non soltanto motore di sviluppo, come è e deve essere, ma anche strumento di attuazione del piano regolatore.

         Ma in che consiste questa sinergia? Il nuovo PR prevede che gli operatori privati possano partecipare con proprie iniziative all’obiettivo di dotare la Città di attrezzature (delle quali, come ho ricordato, siamo nettamente carenti), attrezzature sia a scala di quartiere, sia a scala urbana e territoriale. A questo scopo sono previste forme di convenzione (che sono poi dei veri e propri contratti, con previsione di obblighi, di risoluzione, di risarcimento di danni, di fideiussione e di quant’altro necessario) finalizzate alla costruzione su aree pubbliche di beni pubblici che restano di proprietà pubblica, di beni pubblici su proprietà private che dopo la realizzazione vengono trasferite al Comune, di usi pubblici, temporanei o permanenti, degli immobili che il piano destina ai servizi per la Città. Si tratta di un meccanismo maturato negli ultimi anni, che a Napoli si sta sperimentando con successo  in sostituzione dell’antica pratica dell’esproprio; quindi non più espropriazione delle aree private ma utilizzazione pubblica e privata insieme di aree private mediante assoggettamento all’uso pubblico unitamente a quello privato; ferma rimanendo la piena titolarità dell’Amministrazione nelle scelte relativa alla destinazione delle aree. Si tratta quindi di un meccanismo diretto a dotare ogni municipalità e ogni zona della città di attrezzature pubbliche come scuole, chiese, impianti sportivi, centri di  aggregazione sociale per i giovani e per gli anziani, di verde pubblico, ecc., tutte destinate a  comportare anche reali e visibili effetti di recupero di zone cittadine.

         Sul piano delle risorse per la realizzazione di questa sinergia che pone l’ente pubblico in condizione di poter operare, sono varie le strade perseguibili. Innanzitutto l’utilizzazione, come quota a carico del pubblico, degli oneri di urbanizzazione che il privato certamente preferisce non versare trasferendo l’onere che va a proprio carico sui lavori da effettuare per le opere da destinare al pubblico, il finanziamento pubblico per le differenze, la finanza di progetto già utilizzata con successo in due specifici casi quali Porto Fiorito e il raddoppio del Centro Direzionale, la monetizzazione ed altro ancora. Tutto questo viene disciplinato attraverso la convenzione che del sistema pubblico-privato costituisce l’asse portante.

         In linea di larga massima è questa la configurazione del vigente piano regolatore di Napoli che, contrariamente a quanto si è fatto in molte altre città, è stato redatto “in house”, come Bassolino e la Iervolino hanno sempre giustamente amato sottolineare, non solo in omaggio ad un manipolo di tecnici di grande qualità ed esperienza tutti interni al Comune, ma anche per evidenziare la inesistenza di “grandi” onorari a “grandi” urbanisti. Oggi il PRG di Napoli è considerato uno strumento a cui guardare con grande attenzione poiché mette in campo strategie di avanguardia.

         Il piano presenta, però, anche aspetti problematici che vanno denunziati ed esaminati, cominciando dalla prima e più usuale critica che si muove al PRG partendo dal presupposto che uno strumento urbanistico deve avere  costantemente di mira le necessità della città e le necessità di una città sono assai mutevoli; quindi non è possibile concepire un piano regolatore, fisso, non modificabile con facilità, mano a mano che queste necessità si presentano. Da questa osservazione nasce quindi un dubbio di fondo: un piano regolatore deve essere rigido o flessibile? Ovviamente a monte di questo interrogativo si pone la forza di pressione, in senso positivo e negativo, della politica e quindi nel dare la risposta è necessario un’attenta e dosata ragionevolezza per evitare che una certa politica possa influenzare negativamente le scelte che debbono invece avere, come finalità unica ed assoluta, l’interesse della  città. A questo punto, per porre in campo un ulteriore elemento di riflessione, mi pare giusto ricordare il contenuto delle due trasmissioni di  Report su Rai Tre, condotte dalla bravissima Gabanelli, trasmissioni dedicate ai PR di Roma e di Milano, o meglio alla loro interpretazione ed applicazione. Ebbene, assistendo a quello che è accaduto e che sta accadendo nelle due capitali d’Italia, viene da dire che il nostro PRG rappresenta un baluardo ed una garanzia a cui a mio avviso non è possibile rinunciare; e così ho anche anticipato (ma ci tornerò) quale è la mia posizione sul tema del piano rigido o flessibile. Qui però è anche giusto ricordare quello che da tempo va ripetendo in ogni sede Vezio De Lucia in ordine alla gestione del nostro piano regolatore e cioè che non ha mai dato luogo né a scandali, né a inchieste giudiziarie; e credo che la nostra sia l’unica città che può invocare un simile primato. 

         Ovviamente non nascondo né a voi né a me stesso che anche noi dobbiamo fare passi in avanti e rammodernare alcune cose poiché dall’inizio dell’impostazione del piano ad oggi sono già trascorsi ben  sedici anni; vediamo insieme quindi che cosa potrebbe essere opportuno fare:

* ridurre al minimo la quantità e i tempi di intervento degli uffici interni od esterni all’Amministrazione comunale;

* ridurre i tempi di realizzazione e di approvazione dei PUA; questo è un punto che si riallaccia al precedente e che è irrinunciabile ed a cui si può arrivare utilizzando meglio e di più le conferenze dei servizi;

* programmare per tempo i diabolici interventi di bonifica delle aree caratterizzati da una sconvolgente miriade di autorizzazioni, controlli, certificazioni e collaudi che, solo essi, consumano un tempo infinito, rispetto ai quali molto si è riuscito a fare sul piano delle semplificazioni (come ad esempio in tema di bonifica delle falde) ma molto altro si deve fare,  anche in relazioni ai costi estremamente elevati; ma questo spinoso argomento delle bonifiche ambientali meriterebbe da solo un’apposita conversazione;

* ridurre per alcune zone le cubature destinate al terziario (questo  anche in funzione della crisi in atto) ed incrementare le cubature destinate a residenze, a qualunque tipo di residenze, quindi edilizia sociale, edilizia residenziale pubblica ed edilizia privata; ma questo argomento si riallaccia per più di un verso a quanto sul punto dirò tra poco;

 * fare in modo che il PUA, alla fine del percorso autorizzatorio, abbia sempre in se anche valore di permesso di costruire, non essendo concepibile che, ultimata la fase urbanistica, si debba aprire quella edilizia, con altri passaggi burocratici e ulteriori perdite di tempo nell'ordine di troppi mesi, se non di anni;

* concretizzare meccanismi in virtù dei quali immediatamente dopo la conclusione dell’iter procedimentale di approvazione dei pua siano aperti i cantieri, prevedendo precisi termini di decadenza per la validità dei piani attuativi in ipotesi di ritardi;

* in questa logica è anche indispensabile unificare  gli Assessorati dell'urbanistica e dell'edilizia, di modo che l'iter procedimentale che assiste l'una e l'altra fase sia unificato negli orientamenti politici e burocratici e si ottenga nel contempo un considerevole risparmio di tempo; ovviamente non mi sfugge la delicatezza d questa proposta poiché obiettivamente unificando la direzione politica dell’urbanistica e dell’edilizia in un’unica mano si crea un grumo di potere politico e burocratico di pericolose proporzioni; va quindi fatta una riflessione attenta sull'organizzazione interna di un ufficio così dimensionato al fine di creare meccanismi di controllo continuo sia da parte dello stesso Assessorato, sia da parte di altri organismi dell’Amministrazione; quindi se da un lato si ritiene indispensabile questa unificazione per ottenere semplificazione di tempi e di procedure, dall’altro è auspicabile la individuazione di una severa serie di controlli da porre in campo durante l'iter procedimentale delle istruttorie;

* potenziare in modo congruo il dipartimento di urbanistica, specie se ad esso venisse unita l’edilizia, tenuto conto che allo stato è assolutamente irrisoria la quantità di personale addetto; parliamo di 37 unità complessive, dal capo del dipartimento all’usciere, mentre pare che gli uffici dell'urbanistica dei Comuni di Milano e di Roma abbiano invece tra 200 e 300 addetti ciascuno;

* studiare meccanismi di modificazioni che tengano conto della L.R. 16/2004; si tratta di una normativa che introduce criteri innovativi in materia di pianificazione urbanistica e che, se correttamente applicata, potrebbero portare qualche beneficio.

         Quelli fin qui indicati possono essere considerati “aggiustamenti” di tipo procedimentale. A ben pensarci è però possibile mettere in campo anche modificazioni sostanziali, che, pur non incidendo sulla struttura del piano e sulla strategia ad esso sottesa, possono far assumere al PRG una ulteriore capacità di  generare sviluppo, non solo economico, consentendo di modificarne in modo molto significativo alcuni aspetti quantistici, primo fra tutti l’offerta residenziale in ogni sua articolazione.

         Mi spiego. Il PRG, allorchè ad esso si mise mano, valutò il bisogno abitativo della Città fra 200mila e 270mila vani (grosso modo tra 57 e 77 mila alloggi); si considerò, però, che circa l’80% di questi vani si sarebbero potuti collocare fuori dalla cinta urbana e più precisamente nell’area metropolitana, di cui all’epoca si faceva un gran parlare e che sembrava costituire un obiettivo primario del legislatore. In conseguenza il piano limitò l’offerta abitativa nell’ambito dell’area urbana a soli 50mila vani circa (pari a 14.280 alloggi). A quindici anni dall’impostazione del piano, avendo constatato che il fabbisogno abitativo si è confermato, se non è addirittura aumentato, mentre al contrario la città metropolitana è allo stato tramontata o è ancora molto lontana, è divenuto chiaro che bisogna realizzare nell’area urbana un numero di vani tendente a colmare, se pur parzialmente, il deficit originariamente valutato in 200/270 mila vani. In conseguenza l’Assessorato e il Dipartimento di Urbanistica del nostro Comune hanno posto allo studio (e siamo molto vicini alla meta) la possibilità di realizzare un forte incremento dell’offerta abitativa attraverso la formazione di un programma per la casa concretizzabile all’interno del territorio del Comune (argomento questo che non ha nulla a che vedere con quanto si è fatto e si sta facendo in Regione) sia attraverso l’accelerazione dell’attuazione degli interventi nelle zone di trasformazione, sia utilizzando le aree dove già il piano consente incrementi edilizi, ritenendo che questo sia possibile proprio in virtù di interventi nelle zone dove sono previsti insediamenti urbani integrati, caratterizzati cioè dalla coesistenza di funzioni fra loro compatibili, e cioè dove  possono convivere: produzione di beni e di servizi, attrezzature a scala territoriale e residenze; ovviamente in un contesto di qualità ambientale caratterizzato da una ricca dotazione di servizi e di verde pubblico. E l’incremento delle residenze può essere realizzato in quelle zone dove il piano ha previsto una dotazione di attrezzature in misura superiore agli abitanti ipotizzati, restando in ogni caso coerenti con l’obiettivo di bassa densità territoriale indicato dal vigente PRG.

         Mi auguro di essere stato capace di farmi capire. Comunque, in altre parole il principio è questo: il piano, data la scarsità di attrezzature di cui la Città disponeva, per arricchirne la dotazione ha stabilito una realizzazione di attrezzature superiore rispetto al numero degli abitanti previsti per quelle specifiche zone. In conseguenza oggi in quelle stesse zone si può incrementare il patrimonio di residenze, utilizzando la maggiore quantità di attrezzature già previste, rimanendo però rigidamente all’interno degli standard stabiliti.

         Ora, se si considera che a Napoli permane un’assoluta carenza di offerta di case rispetto ad una crescente richiesta da parte di tutte le fasce sociali (e ciò sia per quanto concerne le vendite, sia gli affitti) e si tiene conto che la Città vive in una costante carenza abitativa dai caratteri drammatici, specie con riferimento alle fasce deboli, si comprende facilmente quale e quanta sia la domanda primaria di abitazioni; domanda peraltro in continua crescita in conseguenza della trasformazione della struttura demografica delle famiglie e cioè: nuove coppie, separati, “single” per vocazione, anziani soli, ecc.-. Quindi crescita del numero delle famiglie la cui configurazione è passata da 3,4 componenti del ’91 a 2,6 del 2007. Ed in conseguenza dei fenomeni ora ricordati le famiglie nell’ultimo decennio sono aumentate di oltre 25mila unità, principalmente per la crescita delle famiglie unipersonali divenute un quinto del totale. Tutto questo comporta la crescita degli “esclusi” dal bene casa sottolineandosi che la notazione non si riferisce solo alla popolazione “povera” ma anche a larghe fasce di reddito medio avviate sulla strada dell’arretramento economico per la ben nota crisi in atto, qui da noi sentita in modo decisamente più pesante, fasce che finiscono per essere escluse dal bene casa sia per l’endemica carenza di abitazioni, private e pubbliche, sia per il livello dei prezzi, che si mantiene patologicamente elevato per la costante carenza dell’offerta, sia infine per questo nuovo e sconcertante fenomeno rappresentato dall’insolvenza nel pagamento del mutuo sulla casa che genera pignoramenti e perdita delle abitazioni.

         E si noti che questo ultimo è veramente un fenomeno nuovo poichè tradizionalmente a Napoli il bene casa era ed è considerato sacro, tant’è che mentre era frequentissima l’insolvenza su qualunque altro acquisto rateale (dai mobili alla televisione, e tutto era puntualmente documentato dai protesti cambiari) l’insolvenza sul mutuo della cassa era assolutamente ignota; la casa non si tocca; si mangia una sola volta al giorno ma si paga la rata di mutuo; principio inviolabile qualunque fosse la fascia di appartenenza. E questo stesso fenomeno negli Usa (il Mutui-Gate) ha assunto una dimensione di tale vastità (da 2 a 4 milioni di case sotto pignoramento, pari a circa il 30% del mercato immobiliare) da far temere ad alcuni giornali locali specializzati un nuovo tracollo dell’economia americana e un default certo delle banche più esposte, di quelle banche cioè che rivendono questi mutui poco credibili <<impacchettandoli in quei prodotti finanziari chiamati “security” e “sub-prime” che hanno alimentato prima la bolla immobiliare e poi,  quando il loro valore è crollato perché tanti mutui erano insolvibili, la recessione>>. Credo infine utile soltanto accennare ad altri due fenomeni che rendono indispensabile l’incremento dell’offerta di abitazioni di ogni genere e sotto qualsiasi forma; mi riferisco ai fitti, alle  morosità e agli sfratti, tragedia tanto napoletana da essere presente fin dal ‘700 nell’iconografia popolare e addirittura codificata nella tradizione teatrale ed in quella canora (vi ricordate le piccole incisioni colorate di Gatti e Dura che presentavano il carrettino tirato a mano da un paio di persone e ricolmo di povere masserizie con la didascalia “O quatte 'e maggio” o il verso della nota canzone "Facímmoce chist'atu quatt' 'e maggio" ?); ed infine la nuova presenza della popolazione straniera residente, pure cospicua (si calcola di circa 21mila regolari iscritti all’anagrafe) che meriterebbe maggiore attenzione e rispetto e di certo una migliore ospitalità abitativa.

         E veniamo ora all’intervento che il Comune di Napoli intende mettere in campo nel settore degli alloggi destinati alle fasce più deboli. Pur  partendo al presupposto che l’attuale offerta di alloggi pubblici copre appena il 4% della domanda, resta comunque il ruolo estremamente positivo svolto a Napoli dall’edilizia pubblica nell’urbanizzazione delle periferie, dove il peso della componente pubblica nel complesso del patrimonio abitativo è del 13%  pari a circa 42mila alloggi, si tratta del valore più alto d’Italia nelle grandi città, dove ammonta all’8%. Ora, pur in presenza di un così ingente patrimonio non è stato possibile rendere disponibile una quota di alloggi da destinare al “ricambio” per venire incontro ai nuovi fabbisogni di cui abbiamo ora parlato.

         Ed è questa la novità che intendo qui comunicare e che rappresenta una interpretazione nuova del nostro piano regolatore.

         Tenendo conto dell’incremento di alloggi che si può produrre negli ambiti di trasformazione (e ripeto questo discorso non ha nulla a che vedere con i provvedimenti regionali assunti o in corso di assunzione) si può dare risposta all’ingente domanda teste ricordata, offrendo circa 30mila nuovi vani, pari a circa 8mila alloggi da offrire in parte alle nuove famiglie e in parte al “ricambio”. Di questo incremento, la cui realizzazione risponde a criteri di assoluto rispetto dei fondamentali principi urbanistici e delle normative consacrate nel PRG, una quota del 30% (pari a circa 2500 alloggi) dovrebbe essere riservata all’ “edilizia residenziale sociale” (c.d. social housing) che è disciplinata dalle norme portate dal DM 22.4.208, GU 146/2008, in modo da poter far fronte ad un quoziente di alloggi a prezzo calmierato, sia per le vendite sia per le locazioni.

         Ma forse debbo spiegarmi meglio.

         L’innovazione dell’edilizia residenziale sociale accende due coni di luce su tutta la materia della casa:

---il primo rappresentato dal fatto che accanto all’ERP (edilizia residenziale pubblica) sovvenzionata, costituita dagli alloggi in locazione a canone sociale, e accanto all’edilizia convenzionata costituita dalle cooperative di abitazione, nasce il nuovo modello degli alloggi in fitto o in vendita a prezzo calmierato;

--- il secondo rappresentato invece dalla possibilità che operatori privati, con il ricorso ad agevolazioni pubbliche, possano realizzare alloggi di edilizia sociale destinati alla locazione temporanea od anche alla proprietà, gestiti dal Comune attraverso norme fortemente garantiste.

         Proviamo a riassumere questo punto per essere più chiari: con la lettura ora proposta del PRG (perché è solo una lettura piana, peraltro del tutto rassicurante, e non un’arzigogolata o forzata interpretazione) nasce la possibilità di realizzare ed ottenere un patrimonio pubblico di circa 2500 alloggi di edilizia sociale, da dare in via temporanea o definitiva a costo ridotto (così come dispone la L. 431/’98), patrimonio da realizzare con risorse proprie da quegli operatori privati che si beneficeranno delle “agevolazioni” urbanistiche, consistenti nell’incremento del numero di alloggi realizzabile sulle loro zone, che nasceranno dalla variante appena proposta e senza alcun onere per il Comune.

         E’ chiaro quindi che parliamo di una variante al PRG vigente, una variante, però, che affonda le proprie radici nella Finanziario 2008 (L. 244/2007, comma 258 e 259) e che deve ascriversi alle c.d. “varianti normative” (così denominate dalla Cassazione), a quelle varianti cioè che si limitano ad una modifica delle “Norme di Attuazione” del piano, senza toccarne la struttura portante del PRG, e perciò stesso solo adeguando le cubature destinate alle residenze a quanto già stabilito dallo stesso piano in relazione agli standard previsti in eccesso nelle zone di trasformazione e nelle aree dove già il piano consente realizzazioni edilizie.                       

         Ora è il caso di avviarmi alle conclusioni, e lo faccio chiarendo che personalmente leggo il PRG, specie in un momento di assoluta desertificazione industriale, come l'unico volano all'economia della Città che, oltre a determinare la riqualificazione delle aree urbane, è anche capace di fare in modo che si aprano cantieri che possano dare un forte impulso all'economia, creando posti di lavoro capaci, nel contempo, di incrementare l'occupazione e ridurre la criminalità.

         Ed allora in chiusura mi pare giusto offrire un rapidissimo spaccato sullo stato dell'arte. Dall'entrata in vigore del PRG sono stati approvati ed adottati (tra PUA e Grandi progetti Urbani) 18 provvedimenti per una superficie totale interessata di 8.315.642 mq e per un valore totale di investimenti pubblici pari a 657.580.977 euro, con un ammontare complessivo degli investimenti pari a 1.127.796.330 euro. Nelle aree di trasformazione sono in corso 200 iniziative, con circa 40 grandi progetti urbani e circa 3 miliardi di euro di soli investimenti privati: sono interessati 297 ettari di spazi pubblici, pari al 21,6% del fabbisogno, con un incremento dal 6,2 a 8,3 metri madri ad abitante. Passando poi al Centro Storico sono state avanzate circa 5000 richieste di lavori per anno (prima del PRG erano 200 per anno) con investimenti attivabili di circa 255 milioni di euro.

         Di fronte a questo quadro dire che il nostro PRG non sia attivo è una scoraggiante  e sonora bugia che può far comodo solo a chi intende mettere sul piano mani adunche. Tutto questo fermo rimanendo che, come ho detto, è assolutamente necessario ridurre i tempi dei procedimenti per qualunque tipo di intervento.

         Chiudo dichiarando che personalmente considero gli abitanti di questa contrada dotati di notevolissima intelligenza ma di altrettanta sregolatezza e se c’è sregolatezza evidentemente bisogna infittire le regole; ritengo quindi che il PRG attualmente vigente sia configurato in modo idoneo per rispondere alle necessità della nostra Città e che l’attuale configurazione, pur se con gli aggiustamenti qualitativi e quantitativi indicati, debba essere conservata.

                                                                                                                

TINO  SANTANGELO **                                                                                 

*Conversazione tenuta presso la Fondazione Sudd l’11 ottobre 2010 

** Vice Sindaco di Napoli e Assessore all’Urbanistica

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